La parola classico, quando viene riferita a un libro, suscita spesso un sentimento ambivalente: da un lato il rispetto, dall’altro una sottile soggezione. Quasi tutti abbiamo sperimentato quella vaga inquietudine che accompagna il pensiero di un’opera “che si dovrebbe leggere”, come se la mancata frequentazione di certi testi comportasse una colpa culturale. I comodini si popolano così di volumi ritenuti imprescindibili, più evocati che letti, trasformando il piacere della lettura in un esercizio di disciplina. Ma che cosa rende davvero “classico” un libro? Esiste davvero un elenco immutabile di opere la cui conoscenza definirebbe, una volta per tutte, l’idea stessa di cultura? La storia delle parole e delle idee suggerisce una risposta assai meno opprimente e, per molti versi, liberatoria.
In origine, il termine classico non aveva nulla di letterario. Nell’antica Roma, classicus designava il cittadino appartenente alla prima classe di censo, la più agiata e socialmente rilevante. Come ricorda Aulo Gellio, nel II secolo d.C., la società romana era suddivisa in classes, e solo i membri della prima potevano dirsi classici: cittadini di “prima categoria”. Fu lo stesso Gellio, riferendo un giudizio dell’oratore Frontone, ad applicare per la prima volta l’aggettivo agli scrittori. Classicus scriptor non indicava un autore geniale o irraggiungibile, ma uno scrittore autorevole, affidabile, esemplare nell’uso della lingua. Un modello, più che un monumento. Questa origine restituisce al termine una concretezza spesso dimenticata, mostrando come l’idea di “classicità” sia legata fin dall’inizio a nozioni di prestigio, autorità e riconoscimento sociale.
Diversa, e in parte complementare, è la tradizione greca del canone. Nella Biblioteca di Alessandria, gli studiosi selezionavano una lista ristretta di autori considerati degni di essere tramandati: gli ἐγκριθέντες, i “prescelti”. Qui nasce l’idea di un corpus chiuso di opere esemplari, più vicina a ciò che oggi siamo abituati a intendere per “classici”. Il classicus latino, tuttavia, non coincide ancora con un canone immobile: è piuttosto un criterio di autorevolezza, aperto e funzionale.
A offrire una chiave decisiva per liberare i classici dall’aura dell’obbligo è Italo Calvino. In una delle sue definizioni più celebri, egli osserva che «i classici sono quei libri di cui si sente dire di solito “sto rileggendo” e mai “sto leggendo”». Il classico, in questa prospettiva, non è un testo che si esaurisce in una prima esperienza, ma un’opera che continua a parlare nel tempo, perché muta il lettore. Ogni rilettura è un incontro nuovo, poiché noi stessi non siamo mai identici a chi eravamo.
Ancora più liberatoria è la conseguenza implicita di questa visione: se l’incontro non avviene, se la sintonia non si produce, il lettore ha pieno diritto di allontanarsi. È il principio formulato con limpida ironia da Daniel Pennac nei suoi “diritti imprescrittibili del lettore”, tra cui spicca quello di non finire un libro. La mancanza di risonanza non è una colpa, né dell’opera né di chi legge. Tra il libro, per quanto grande, e il lettore, per quanto disposto a comprenderlo, può semplicemente non avvenire quella “reazione chimica” che rende viva la lettura. In questi casi, la rinuncia non è una sconfitta, ma un atto di onestà intellettuale. Il libro, a differenza di noi, non cambia: potrà sempre essere ritrovato.
A questa riflessione si collega un’altra considerazione fondamentale: il tempo della lettura. John Williams, autore di Stoner, osservava come certi capolavori rischino di essere letti troppo presto. Non perché siano incomprensibili sul piano narrativo, ma perché richiedono un bagaglio di esperienza che non sempre è disponibile in età giovane. Un adolescente può seguire la trama de Il grande Gatsby, ma difficilmente può cogliere fino in fondo la complessità delle disillusioni, dei contesti storici e sociali, delle ambiguità morali che ne costituiscono la sostanza più profonda. Leggere un grande libro nel momento sbagliato può lasciarne un’impressione pallida e incompleta. Non è una condanna definitiva, ma un invito alla rilettura futura. Il lettore di oggi non è quello di domani.
Resta allora la questione più ampia del nostro rapporto con la grandezza del passato. La storia del pensiero e dell’arte mostra tre atteggiamenti ricorrenti. Il primo è la fiducia nel progresso lineare: l’idea che i moderni siano destinati a superare gli antichi. Il secondo è l’opposto speculare: la nostalgia paralizzante, la convinzione che il passato rappresenti una vetta irripetibile. Questo sentimento è efficacemente raffigurato nel celebre disegno di Johann Heinrich Füssli, La disperazione dell’artista di fronte alla grandezza delle rovine antiche, in cui un uomo è ritratto in lacrime davanti ai frammenti colossali della tradizione, schiacciato dal loro peso.
Esiste però una terza via, più feconda: quella del dialogo. È l’atteggiamento di chi riconosce la grandezza del passato non per esserne intimidito, ma per trarne impulso creativo. Il Rinascimento e l’Umanesimo ne offrono l’esempio più eloquente: la riscoperta dei classici non produsse un’imitazione servile, ma divenne il punto di partenza per una nuova visione del mondo. Il rapporto maturo con un classico non è né sottomissione né rifiuto, ma confronto: un dialogo che integra la sapienza del passato nel presente, per aprire possibilità future.
L’ansia da “classico” nasce, in fondo, dall’illusione che esista un canone rigido di opere da attraversare per dovere. Ma la storia del concetto, la riflessione dei grandi scrittori e l’esperienza stessa della lettura suggeriscono il contrario. Il classico non è un libro che “si deve” leggere, ma uno strumento con cui pensare, un interlocutore con cui misurarsi lungo il corso di una vita. Come scrive Calvino, è un libro che “non può esserti indifferente” e che contribuisce a definirti, anche attraverso il dissenso.
Il vero classico, dunque, non è quello imposto dall’esterno, ma quello che ciascun lettore, prima o poi, riconosce come proprio.
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