La riforma del sistema scolastico elaborata da Wilhelm von Humboldt si colloca all’interno del più ampio processo di trasformazione dello Stato prussiano avviato all’inizio del XIX secolo, noto come riforme Stein-Hardenberg, dal nome dei due principali artefici politici, Heinrich Friedrich Karl vom Stein e Karl August von Hardenberg. Tali riforme nacquero dalla necessità di modernizzare una struttura statale messa duramente alla prova dalle sconfitte militari contro la Francia napoleonica e si articolavano in tre grandi ambiti: la riorganizzazione amministrativa, volta a garantire l’uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato; la riforma dell’esercito, orientata a renderlo più efficiente e moderno; e, infine, la riforma dell’istruzione, affidata a Humboldt durante il suo breve ma decisivo incarico di ministro per la cultura e l’educazione tra il 1809 e il 1810.
Il testo fondamentale che espone la visione humboldtiana è il memoriale interno noto come Der Königsberger und der Litauische Schulplan, redatto nell’autunno del 1809. Con esso la Prussia si dotò, per la prima volta, di un sistema scolastico unitario, regolato da norme comuni e culminante in un esame finale che attestava la preparazione complessiva dello studente. Non si trattava di una semplice riforma amministrativa, ma di un progetto organico che mirava a ridefinire il senso stesso dell’educazione.
Humboldt concepì il percorso formativo come un processo articolato in tre grandi stadi, che egli definisce in termini filosofici: istruzione elementare, istruzione scolastica e istruzione universitaria. L’istruzione elementare aveva una funzione eminentemente preparatoria. Il suo compito non era tanto quello di trasmettere un sapere strutturato, quanto di rendere possibile l’apprendimento successivo, fornendo le competenze di base: la padronanza della lingua materna, i fondamenti dell’aritmetica e alcune nozioni iniziali di geografia e di storia naturale e umana.
Il secondo stadio, quello dell’istruzione scolastica vera e propria, coincideva con il ginnasio umanistico. Qui l’obiettivo non era più soltanto acquisire conoscenze, ma esercitare sistematicamente le facoltà intellettuali. Humboldt definisce questo momento come il luogo in cui si formano le condizioni indispensabili per ogni futura comprensione scientifica e per ogni competenza artistica. Il curricolo comprendeva discipline diverse — dalla matematica alla storia, dalla musica alla ginnastica — ma il suo fulcro era costituito dallo studio obbligatorio del greco e del latino. Non si trattava di un’erudizione fine a se stessa, bensì di un allenamento rigoroso del pensiero attraverso lingue ritenute particolarmente adatte a disciplinare l’intelletto.
Il terzo stadio era rappresentato dall’università, concepita come lo spazio della ricerca libera. L’accesso era consentito solo dopo il superamento dell’esame conclusivo del ginnasio, che certificava non una specializzazione, ma una formazione generale compiuta. Durante gli anni ginnasiali, l’insegnante aveva un ruolo decisivo: doveva da un lato individuare le inclinazioni particolari dello studente per orientarlo verso il percorso universitario più adatto, dall’altro vigilare sulla sua formazione complessiva, affinché nessuna dimensione dell’educazione restasse trascurata.
Il nucleo teorico della riforma humboldtiana è l’ideale neoumanistico di Bildung, la formazione integrale dell’uomo. La scuola non era pensata come un luogo di addestramento professionale o di acquisizione di competenze immediatamente spendibili, ma come un’istituzione destinata a formare cittadini completi, capaci di partecipare consapevolmente alla vita dello Stato. In questa prospettiva, Humboldt affermò con forza il principio del diritto universale all’istruzione. Anche le discipline considerate “alte”, come le lingue antiche, dovevano essere accessibili a tutti, indipendentemente dall’origine sociale, perché solo una formazione comune poteva garantire una reale uguaglianza civica. Le scuole sostenute dallo Stato, sosteneva Humboldt, non dovevano servire gli interessi di un singolo ceto, ma mirare esclusivamente alla formazione umana generale.
Pur non introducendo ex novo lo studio delle lingue classiche, la riforma ne modificò radicalmente il senso. L’apprendimento del greco e del latino non era più giustificato primariamente dalla necessità di leggere gli autori antichi, ma acquisiva un valore intrinseco. Lo studio dell’antico veniva considerato formativo in sé, in quanto espressione privilegiata dell’umanità e strumento fondamentale per la Bildung. In questo quadro, la lingua assumeva un ruolo più centrale della letteratura: il suo apprendimento era ritenuto universalmente utile perché esercitava la memoria, l’immaginazione e la capacità analitica, anche qualora lo studio non giungesse a una piena padronanza dei testi letterari. La letteratura, invece, richiedeva competenze più avanzate e poteva diventare oggetto di specializzazione successiva.
Sebbene greco e latino fossero formalmente posti sullo stesso piano, nel pensiero di Humboldt il modello greco occupava una posizione di chiara superiorità. Egli considerava la civiltà greca come il punto più alto della formazione umana, mentre quella romana appariva come una derivazione, nobile ma subordinata. Questa convinzione emerge con particolare chiarezza in alcune lettere giovanili del 1792. In una missiva a Carl Gustav von Brinckmann, Humboldt afferma che, parlando di “antichi”, si dovrebbe in realtà pensare a una sola nazione, quella greca, poiché gli scrittori romani, in quanto tali, sarebbero essenzialmente greci. In una lettera a Friedrich August Wolf, egli sostiene che solo lo studio dei Greci è in grado di abbracciare l’uomo nella sua interezza e che presso di essi la formazione umana aveva raggiunto il suo culmine. Il greco divenne così la disciplina formativa per eccellenza, in linea con l’orientamento della scienza dell’antichità tedesca inaugurata da Winckelmann.
Nel saggio Über das Studium des Alterthums, Humboldt affronta esplicitamente la questione dell’“utilità” degli studi umanistici, opponendosi alla diffusa convinzione che essi fossero improduttivi rispetto alle scienze. Egli distingue innanzitutto un’utilità materiale, per cui lo studio dell’antichità fornisce contenuti e strumenti a discipline come la storia, la filologia e la storia dell’arte. Ma più importante è l’utilità formale, che comprende una dimensione estetica — legata alla contemplazione delle opere antiche — e una storico-antropologica, volta a comprendere gli antichi come popolo e a ricavarne una sorta di biografia dell’umanità. In questo senso, gli studi classici risultano utili in modo insieme pratico e ideale: non producono oggetti, ma formano l’ἦθος del cittadino.
Queste idee trovavano una profonda consonanza nel pensiero di Friedrich August Wolf, che nel suo scritto del 1807 Darstellung der Alterthumswissenschaft ridefinì il compito della filologia come studio complessivo della civiltà greca. Anche per Wolf, l’obiettivo non era l’erudizione fine a se stessa, ma la comprensione del carattere nazionale greco e, attraverso di esso, dei tratti più autentici dell’umanità. Humboldt e Wolf condividevano la convinzione che lo studio dei Greci fosse portatore di un’etica fondamentale per la formazione dei cittadini dello Stato moderno.
Il modello del ginnasio umanistico humboldtiano, pur esercitando un’influenza enorme, non rimase immutato. Nel corso del tempo subì un progressivo ridimensionamento: aumentarono le richieste di ridurre lo spazio delle lingue classiche a favore delle discipline scientifiche e delle lingue moderne; all’inizio del Novecento venne meno il monopolio del ginnasio umanistico come unica via d’accesso all’università; infine, con la riforma del 1972, agli studenti dell’ultimo triennio fu concessa la possibilità di scegliere tra il greco antico e una lingua moderna.
Nonostante queste trasformazioni, l’eredità del sistema humboldtiano rimane profonda e duratura. Il suo impianto teorico ha influenzato in modo decisivo la nascita dei sistemi di istruzione secondaria in numerosi paesi europei e, in particolare, ha lasciato un’impronta evidente nella tradizione dell’istruzione classica italiana, incarnata ancora oggi dal Liceo classico. In esso sopravvive, pur tra molte tensioni, l’idea che la scuola non debba limitarsi a preparare al lavoro, ma debba anzitutto formare l’uomo e il cittadino.
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