mercoledì 17 dicembre 2025

Le riforme scolastiche italiane: Gentile e Bottai

Le riforme scolastiche promosse da Giovanni Gentile nel 1923 e da Giuseppe Bottai nel 1940 si collocano all’interno di una lunga stagione di riflessione sui nodi strutturali del sistema educativo italiano, ereditati in larga misura dall’impianto delineato dalla Legge Casati. Tra questi spiccavano la crescente disoccupazione intellettuale, la rigida dicotomia tra istruzione classica e tecnica e l’aumento della domanda di scolarizzazione proveniente dalle classi popolari. Sebbene entrambe le riforme siano state varate durante il regime fascista mediante decreti regi e in assenza di un reale dibattito parlamentare, ridurle a semplici strumenti di imposizione ideologica risulterebbe storicamente fuorviante.

Benito Mussolini, che aveva alle spalle un’esperienza diretta come insegnante, attribuiva alla scuola un ruolo centrale nella costruzione del “nuovo italiano”. A suo giudizio, l’istruzione doveva permeare ogni grado e ogni disciplina di una visione coerente con il fascismo, educando le giovani generazioni a comprenderlo e a rinnovarsi in esso. Non a caso definì la riforma del 1923 «la più fascista delle riforme». Tuttavia, essa fu anzitutto il prodotto della visione filosofica di Giovanni Gentile, chiamato al Ministero della Pubblica Istruzione per il suo prestigio intellettuale e per la sua autorevolezza nel panorama culturale europeo.

La riforma Gentile ridisegnò profondamente l’istruzione media, fissando l’obbligo scolastico fino ai quattordici anni e articolando il sistema in un primo e in un secondo grado nettamente distinti. Il principio che ne informava l’intero impianto era dichiaratamente selettivo e aristocratico: gli studi secondari erano concepiti come «di lor natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola», riservati a una minoranza ritenuta intellettualmente più idonea. In questo quadro si collocano la creazione di nuovi licei — scientifico, artistico e femminile — pensati come alternative al liceo classico; la riforma della formazione magistrale, con la sostituzione delle scuole normali con gli istituti magistrali; e il ridimensionamento dell’istruzione tecnica, cui venne assegnato uno sbocco post-elementare privo di accesso diretto all’università. Centrale fu inoltre l’introduzione di una fitta rete di esami di ammissione, idoneità e abilitazione, destinati a funzionare come veri e propri filtri selettivi.

Il liceo classico, pur rimanendo il perno simbolico del sistema, subì modifiche relativamente contenute rispetto all’ordinamento casatiano. Nel ginnasio si registrò una lieve riduzione delle ore di latino e greco, compensata da un rafforzamento dell’italiano e della storia; nel liceo, al contrario, le lingue classiche tornarono a occupare uno spazio più ampio — il greco, in particolare, raddoppiava nei primi due anni — accanto a un incremento significativo delle discipline scientifiche. La filosofia venne estesa a tre anni di corso, pur senza un aumento sostanziale del monte ore complessivo. Più che sul piano dei programmi, la riforma agì sul piano sociale: il liceo classico divenne un’istituzione ancor più elitaria, con iscrizioni ridotte e una funzione esplicitamente orientata alla formazione della classe dirigente.

In questo contesto, il liceo scientifico rappresentò una novità significativa. Esso consentiva un accesso controllato all’università, limitato alle facoltà di Scienze, Medicina e Chirurgia, rispondendo alle richieste di un’alternativa al percorso classico ma, al tempo stesso, chiudendo definitivamente l’accesso universitario agli istituti tecnici. L’effetto complessivo della riforma fu un drastico ridimensionamento della popolazione studentesca: le iscrizioni alle scuole secondarie superiori scesero da circa 337.000 nell’anno scolastico 1922-1923 a poco più di 237.000 nel 1926-1927, mentre le immatricolazioni universitarie registrarono una flessione significativa rispetto al primo dopoguerra.

A distanza di quasi vent’anni, Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale dal 1936 al 1943, maturò una critica sempre più esplicita al modello gentiliano, giudicato una “scuola borghese” eccessivamente chiusa, caratterizzata da una frammentazione dei percorsi post-elementari e da scelte precoci che rischiavano di cristallizzare troppo presto le differenze sociali. La risposta a queste criticità prese forma nella cosiddetta “Carta della Scuola”, che culminò nell’istituzione della scuola media unica triennale con la legge n. 899 del 1° luglio 1940. Questo nuovo segmento scolastico sostituì il ginnasio inferiore, uniformò il primo ciclo dell’istruzione secondaria e rinviò la scelta dell’indirizzo di studi ai quattordici anni. Contestualmente, il liceo classico e quello scientifico furono ridotti a cinque anni ciascuno.

Bottai guardò a questa riforma con particolare soddisfazione, definendo la scuola media il “germe” e il “centro vitale” dell’intero progetto. Essa rappresentava il tentativo più ambizioso di superare la frammentazione del sistema e di offrire a tutti una base formativa comune, prima di procedere a una differenziazione più consapevole dei percorsi.

Pur criticando l’elitarismo della tradizione classica, Bottai non ne rifiutò il valore culturale. Al contrario, propose una rilettura in chiave di “umanesimo moderno”, capace di coniugare tradizione e contemporaneità. In questa prospettiva, il latino divenne materia fondamentale nella scuola media per tutti gli studenti, non come strumento di distinzione sociale, ma come disciplina dotata di un forte valore metodologico. Secondo Bottai, l’esperienza aveva dimostrato che non esistevano, fino ad allora, strumenti più efficaci delle lingue antiche per strutturare un insegnamento realmente formativo: lo studio del latino, sosteneva, preparava alla matematica e alla fisica persino meglio della matematica e della fisica stesse.

Valutare le riforme di Gentile e Bottai esclusivamente attraverso la lente dell’ideologia fascista significa dunque perdere di vista la loro complessità storica. Esse rappresentano due risposte diverse a questioni pedagogiche che attraversavano il dibattito europeo da almeno un secolo. Gentile operò una netta diversificazione dell’istruzione secondaria superiore, ampliando, seppur in modo selettivo, l’accesso all’università oltre il solo canale classico. Bottai, dal canto suo, avviò un processo di unificazione dei percorsi post-elementari, ponendo le basi per una scuola media comune.

Nel loro insieme, queste riforme segnarono la fine dell’obbligatorietà di fatto degli studi classici come unico percorso di eccellenza. La cultura greco-latina cessò di essere un’imposizione di stampo humboldtiano-casatiano, fondata sull’idea della civiltà greca come valore morale assoluto, e divenne progressivamente una scelta. In questo passaggio si apre, ancora oggi, una possibilità feconda: ripensare gli studi classici non come residuo del passato, ma come risorsa viva e consapevole per interpretare il mondo contemporaneo.

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